Auschwitz-Birkenau: libri consigliati
SONO SOPRAVVISSUTO DUNQUE SONO
di Tadeusz Sobolewicz
traduzione in italiano Luca Palmarini e Serafina Santoliquido
Tadeusz Sobolewicz nasce a Poznań il 25 marzo 1923. Fino allo scoppio della guerra frequenta il ginnasio Paderewski di Poznań. Fa parte anche del 16˚ gruppo scout di Poznań, denominato “gen. J. Bem”. Durante l’occupazione nazista della Polonia è il portaordini del capo della sezione di Tarnów dell’Unione per la Lotta Armata (ZWZ); passa poi a Częstochowa, dove viene arrestato il primo settembre 1941. Viene detenuto nella prigione di Zawodzie e poi deportato nei campi di Auschwitz, Buchenwald, Lipsia, Mülsen, Flossenbürg e Regensburg. La realtà dei campi, vista con i suoi occhi, è una terribile descrizione della fame, del terrore e delle malattie, delle torture “comuni” e di quelle più ricercate, delle camere a gas, delle fucilazioni e delle esecuzioni. Il libro racconta come ci si muoveva sulla stretta linea al confine tra la vita e la morte, la speranza e la disperazione; è una testimonianza della lotta per la dignità e la sopravvivenza.
Nel 1985 il libro di Tadeusz Sobolewicz ha ricevuto il primo premio al XVI concorso nazionale sulle memorie di Auschwitz, organizzato dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau di Oświęcim. È stato pubblicato dal Museo stesso con il contributo dell`Istituto Italiano di Cultura di Cracovia.
“Ad ispirarmi nel trascrivere le mie esperienze di guerra e di progioniero sono senza dubbio stati gli incontri con la gioventù. Sono giunto alla conclusione che le innumerevoli informazioni assimilate dai giovani durante le visite al Museo Statale di Auschwitz o in altri luoghi di sterminio, non riescono a rendere completamente l`idea di cosa fosse un campo di concentramento. Non si viene informati abbastanza sulla vita e sull`esistenza che al suo interno vi conducevano i prigionieri.
Le informazioni storiche riguardanti le realizzazioni dei campi, le statistiche riguardanti il numero dei prigionieri che si trovavano in un dato campo,
quelle delle persone uccise e molte altre, fanno senza dubbio una grande impressione, ma dalle conversazioni-discussioni con i ragazzi scatturivano domande del tipo:
- In che modo lei è riuscito ad uscire vivo da quell`incubo? Perche molti sono morti e lei è riuscito a salvarsi? Il sopravvivere ad un campo sembra essere una cosa impossibile,
mentre lei è ancora vivo, perche? Perchè lei ce l`ha fatta e gli altri no? – Domande simili vengono poste continuo anche ai miei compagni di prigionia.
La risposta è molto semplice: ognuno di quelli che sono morti si sarebbe potuto trovare al mio posto e, viceversa, io mi sarei potuto trovare tra loro che vennero uccisi.
(...) Io sono passato attraverso sette diversi luoghi di prigionia e di sicuro le mie modeste memorie non sono sufficienti a rendere pienamente la complessità della vita
di un prigioniero. Se ciò, soprattutto da parte dei giovani, porterà anche in minima parte ad una migliore concezione ed immaginazione di come fosse un campo di concentramento,
sarà già un successo nel percorso verso un messaggio generale volto a salvare il mondo ed il genere umano dalla guerra, affinchè in futuro nessuno sia privato
della sua infanzia, affinchè non sia obbligato a provare orrore nei confronti del periodo della propria giovinezza, e perchè possa contribuire ad affermare l`amicizia
tra gli uomini. (...)”
Tadeusz Sobolewicz
UNA VIOLINISTA A BIRKENAU
di Helena Dunicz Niwińska
traduzione in italiano Alessio Costa
Helena Dunicz Niwińska nasce nel 1915 a Vienna. Fino al 1943 abita coi genitori e coi fratelli a Leopoli. All'età di dieci anni inizia lo studio del violino nel Conservatorio.
Negli anni 1934-1938 studia pedagogia, proseguendo la sua formazione musicale. Arrestata nel gennaio del 1943, dopo l'internamento nel carcere dei Łącki di Leopoli, giunge ad Auschwitz nell'ottobre del 1943 insieme alla madre.
A Birkenau - in quanto violinista - diventa un membro dell'orchestra femminile fino al gennaio del 1945. Evacuata verso i campi di Ravensbrück e di Neustadt-Glewe, viene liberata nel maggio del 1945.
Insieme a una sua campagna del lager fa ritorno alla fine di maggio nella Polonia postbellica, privata della sua amata Leopoli. Abita a Cracovia, dove in breve tempo viene assunta nella casa editrice musicale presso la quale lavora fino al 1975,
svolgendo la mansione di vice direttrice della redazione dei testi scolastici musicali. Il suo libro "Una violinista a Birkenau" è il racconto del tragico destino della sua famiglia e, in particolar modo,
del periodo da lei transcorso come prigioniera numero 64118 nell'orchestra femminile del lager.
“Trascorsero un paio di giorni prima di essere trasferita al kommando e al blocco dell’orchestra. Abbandonando il blocco 25 non mi portai dietro nulla, poiché, come ogni altra zugang in quarantena non possedevo alcunché. Lasciai la mamma, pregando le compagne del nostro stesso trasporto di Leopoli di prendersi cura di lei. La mamma aveva superato la cinquantina. La permanenza di nove mesi in quella prigione nazista l’aveva estenuata oltre misura e le condizioni nel blocco 25 erano terribili.
Non ci dicemmo addio, poiché nutrivamo la speranza che ci saremmo in qualche modo rincontrate. Quando entrai nel blocco dell’orchestra, era in corso una prova. Alma, senza fiatare, m’indicò il posto al primo leggio, accanto alla prima violinista Hélène Scheps, una giovane ebrea belga. La direttrice aveva spostato a un altro leggio la violinista che fino a quel momento occupava quel posto. Io, in silenzio, lo presi. Quella violinista era una polacca, Jadwiga Zatorska. Per lei fu una totale degradazione di ruolo
ma in seguito Wisia non mi mostrò mai alcuna animosità per questo. Anzi, al contrario, già durante la prima pausa venne verso di me e con grande affabilità prese a domandarmi di dove venissi. Come prigioniera del campo già navigata mi circondò di cure. Così ebbe inizio la nostra amicizia da lager. Il ruolo di Primo Violino ha sempre un particolare rango all’interno dell’orchestra, ma non a Birkenau. Qui accadeva diversamente, qui tutte noi, direttrice compresa, eravamo soltanto delle prigioniere e dovevamo suonare.
L’esecuzione della musica era un fenomeno tipico in molti campi, non solo nel nostro. Tuttavia la musica a Birkenau aveva per la maggior parte dei prigionieri un’accezione diversa che non per esempio quella artistica o psichica, che risollevava l’animo. La musica che eseguivamo conteneva in sé un qualcosa di infernale. Cominciammo a rendercene conto fin da subito, vivevamo quindi dei dilemmi di natura morale, delle incertezze in fondo all’anima: dovevamo suonare o no? Più volte tornerò ancora su tale aspetto in queste mie memorie.
Le possibilità di sopravvivenza a Birkenau l’avevano piuttosto quei prigionieri che lavoravano in buoni kommando, ovvero al chiuso. Un buon, e persino ottimo kommando di lavoro era naturalmente anche l’orchestra del campo. Quella che era nata nel campo femminile di Birkenau era una tra quelle che erano in funzione in tutto il combinato del KL Auschwitz. La prima orchestra maschile di Auschwitz I era nata a cavallo tra il dicembre 1940 e il gennaio 1941. Le successive erano state le orchestre maschili di Birkenau (nel 1942) e dei sottocampi, tra cui quello di Monowitz.
Un carattere leggermente diverso lo avevano le orchestre nel campo degli zingari e nel campo per famigie per gli ebrei di Theresienstadt.”
Helena Dunicz Niwińska
AUSCHWITZ IL CAMPO NAZISTA DELLA MORTE
Lavoro colettivo a cura di Franciszek Piper e Teresa Świebocka
traduzione in italiano Salvatore Esposito
Il libro è un popolare schizzo storico del campo di concentramento di Auschwitz. Il suo contenuto si compone di: genesi, costruzione ed ampliamento del campo,
struttura organizzativa e caratteristica delle autorità SS del campo, condizioni di vita dei prigionieri, lavoro dei prigionieri, esperimenti medici,
sorte dei bambini nel campo, sterminio di massa degli ebrei, numero delle vittime, saccheggio dei beni degli ebrei, movimento di insurrezione dei prigionieri, evacuazione,
eliminazione e liberazione del campo, punizione – processi degli uomini delle SS che componevano il personale del campo.
Il libro è basato sulle ultime ricerche degli storici, in maggioranza studiosi del Museo.
AUSCHWITZ BIRKENAU
Il luogo nel quale ti trovi...
prefazione di Piotr M.A. Cywiński
traduzione in italiano Diego Audero Bottero
Un album unico che rappresenta il capitolo più tragico della storia di Auschwitz - lo sterminio degli ebrei. Sono stati fotografati recentemente gli stessi posti, dove si svolsero le scene più tragiche e raccapriccianti. L'idea alla base di questo libro era quella di poter guidare i visitatori del Memoriale di Auschwitz in modo che percepiscano che tutto è accaduto proprio lì - nel luogo in cui si trovano…
Un brano estratto dalla prefazione di Piotr M.A. Cywiński - il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, ideatore del libro.
“(…) Tra tanti documenti che testimoniano lo sterminio, di particolare importanza è l'album conosciuto come Album di Auschwitz o Album di Lili Jacob. Tale documento fotografico venne ritrovato durante la liberazione del campo KL Mittelbau-Dora da un'ebrea slovacca - Lili Jacob appunto - la quale era stata precedentemente prigioniera del campo di Auschwitz.
L'album era formato da circa duecento fotografie che rappresentavano l'arrivo sulla rampa di Birkenau di alcuni trasporti di ebrei dall'Ungheria nell'estate del 1944.
Le immagini rappresentano quasi un reportage, in ordine tematico, di un arrivo a Birkenau: l'arrivo dei treni, l'uscita dal vagone, la formazione delle file, la selezione, il cammino verso le camere a gas, l'attesa davanti all'ingresso degli spogliatoi,
l'ingresso nel settore di quarantena per i prigionieri accettati nel campo così come l'appropriazione di tutto il materiale che apparteneva ai prigionieri.
L'album è spaventoso ed emozionante allo stesso tempo. Spaventoso, non solo per quello che rappresenta, ma anche perchè accompagna il lettore lungo una prospettiva che è quella di coloro che quel crimine l'hanno commesso.
Ed emozionante, perchè in esse sono stati catturati gli ultimi sguardi, le ultime espressioni, le ultime paure ed emozioni, di persone innocenti.
Ancora oggi disconosciamo l'obiettivo che sta dietro la produzione di quell'album fotografico. Il fotografo delle SS voleva presumibilmente rappresentare, in uno sviluppo narrativo, tutto il processo di Sterminio,
intenso come una vera e propria catena di eventi che dovevano essere illustrate in ogni singolo anello, eccetto quello finale, quello delle camere a gas e dei crematori.
Disconosciamo a chi quell'incredibile documento fosse destinato, così come sia arrivato al campo di Mittelbau-Dora. Ma il fatto, di per sé già incredibile, è che a trovarlo sia stata una donna, Lili Jacob,
che non solo ha riconosciuto se stessa in quelle terribili fotografie, ma anche parte dei suoi cari e conoscenti che sino ad Auschwitz, con lei, erano stati deportati.
L'album è unico nel suo genere. Non esistono paragoni, per importanza, in tutta la documentazione a cui l'umanità, al giorno d'oggi, ha accesso sullo Sterminio.
Il suo significato va tuttavia molto al di là della semplice narrazione del destino tragico di quei due - o forse tre - trasporti che arrivarono in quella calda estate del 1944 a Birkenau.
Può infatti essere considerato la trasfigurazione visuale di Auschwitz stesso, l'unico - tra grandi centri di Sterminio - ad essersi conservato in modo così accessibile da essere ancora oggi, nonostante il passare incalzante del tempo,
perfettamente leggibile.
Ed esattamente come Auschwitz (inteso come luogo di memoria) rappresenta oggi tutti i luoghi dove venne perpetrato lo sterminio, quell'album, la gente in esso immortalata, rappresentano tutti quei trasporti, tutta quella gente,
che i nazisti sono riusciti ad eliminare nei vari centri di Sterminio. Tanto Auschwitz come l'album si possono accomunare quindi, in una certa prospettiva, come simbolo di testimonianza di un qualcosa di molto più grande e,
allo stesso tempo, di qualcosa di molto concreto, la realtà tangibile e unica delle vittime ebree del confine slovacco-ungherese-ucraino, e dalla famiglia, dei conoscenti di Lili Jacob.
Questa identità comune è stata il senso di questa pubblicazione. Abbiamo avuto come guida l'obiettivo di trovare sul terreno quegli stessi luoghi immortalati nelle fotografie.
Volevamo mostrare da un lato il vuoto, il silenzio, la desolazione che contrastano con il passato. Ma allo stesso tempo i segni tangibili che ancora oggi esistono e che il tempo non ha potuto cancellare.
Concetto che è anche la ragione d'essere di Auschwitz come luogo di Memoria.
Venire ad Auschwitz non significa soltanto intraprendere un cammino storico, un incontro con il passato. Tale conoscenza, a diversi livelli, si potrebbe ottenere ovunque.
Il contatto con la realtà del luogo della memoria di Auschwitz permette molto di più: un percorso di riflessione profonda e di comprensione totale.
Ovunque ci trovassimo, tra fili spinati o nelle baracche, tra le rovine delle camere a gas e dei crematori o nel bosco di betulle, ci troveremmo a dover affrontare un personale percorso molto più umano che non storico, dentro la realtà di Auschwitz.
Una esperienza, come dice il titolo di questa raccolta, del luogo nel quale ci troviamo…”
Piotr M.A. Cywiński
LE LETTERE DA AUSCHWITZ
di Janusz Pogonowski
1942 - 1943
a cura di Franciszek Piper
traduzione in italiano Augusto Fonseca
Janusz Pogonowski nato il 9 agosto del 1922 a Cracovia e morto il 19 luglio del 1943 ad Auschwitz. Era ancora studente del IV Ginnasio-Liceo "Henryk Sienkiewicz" di Cracovia, quando, per pura casualità, fu arrestato dai tedeschi nel maggio del 1940 durante un rastrellamento mirato contro l'intelligenza polacca.
Trattenuto in carcere senza alcuna accusa, prima a Cracovia e poi a Tarnów, il 14 giugno del 1940 fu condotto nel campo di concentramento di Auschwitz. Aveva allora 17 anni e 10 mesi.
In seguito alla fuga di tre suoi compagni del reparto dei rilevatori, fu impiccato insieme con altri suoi 11 compagni ad una forca collettiva durante l'appello serale, il 19 luglio del 1943.
Ci restano di lui delle lettere, scritte segretamente e per vie clandestine fatte pervenire alla famiglia. Il giovane descrive l'inferno del campo di concentramento, il suo profondo dramma personale,
il rimpianto per la libertà e i propri cari. Possano queste lettere divenire l'incarnazione dei pensieri di tutte quelle vittime di Auschwitz,
cui non fu consentito di lasciare dopo di sé neanche un'espressione del proprio umano sconforto e del proprio amore per ogni cosa e ogni persona cara.
“(…) La morte qui è un fatto tanto commune, che ormai quasi nessuno prova spavento a vedersela di fronte. Le esecuzioni avvengono pressoché quotidianamente sotto i nostri occhi e senza una precisa ora del giorno.
Le pallottole qui non uccidono unità o decine di persone, ma letteralmente migliaia e migliaia.
Ieri, per esempio, nel vicino campo di Birkenau sono finite delle persone nelle camere a gas, non in modo incidentale, ma dopo averli intrdotti in un locale costruito apposta per questo preciso scopo.
Dopo l'appello della sera, vale a dire dopo le sei, sulla piazza dell'appello hanno impiccato due polacchi.
È stato detto che avevano progettato la fuga… Uno di loro ha chiesto pietà, ma quella preghiera è stata oggetto di scherzo per i nostri superiori; l'altro, invece, si è comportato in modo molto eroico e,
alzando la testa per infilarla nel cappio, ha urlato:
"Polacchi, continuate a resistere! Fin quando voi siete in vita, la Polonia non è morta e non morrà!". Di questo genere di persone ha bisogno il nostro popolo e così potremo resistere e la Polonia tornerà ad essere una nazione libera.
Vi scongiuro sopra ogni altra cosa, prendetevi cura di voi stessi, poichè la Gestapo tende agguati ad ogni passo. E finire nel campo di concentramento di Auschwitz è la stessa cosa che morire.
Vi abbraccio tutti molto forte, miei carissimi, e con grande affetto. Il vostro Janusz.”
Un brano di una lettera di Janusz Pogonowski scritta il 14 luglio del 1942.
LA SPERANZA È L'ULTIMA A MORIRE
di Halina Birenbaum
traduzione in italiano Alessio Costa a cura di Jadwiga Pinderska-Lech
Halina Birenbaum – scrittrice, poetessa, traduttrice - nasce a Varsavia nel 1929. Da bambina vive l'incubo del ghetto di Varsavia e dei campi: Majdanek, Auschwitz, Ravensbruck e Neustadt-Glewe, dove viene liberata nel 1945.
Nel 1947 emigra in Israele, si sposa e diventa madre di due figli. Durante i numerosi incontri con la gioventù israeliana, polacca e tedesca, racconta le esperienze vissute nei campi.
La sua opera è una testimonianza della memoria della Shoah e al contempo la prova dell'indistruttibilità dei sentimenti più umani: la speranza, l'amore per il mondo e per la vita in ogni sua forma.
Nel marzo del 2001 il Consiglio Polacco dei Cristiani e degli Ebrei le conferisce il titolo di "Personalità dell'Unificazione 2001".
“… Quando terminai di scrivere mi senitii a meraviglia: mi ero liberata! Era quello che ero in dovere di fare, quello che mi si richiedeva. Avevo la sensazione di vivere il momento più sublime di tutta la mia vita.
I miei cari, il loro passato e il mio passato in mezzo a loro, la loro vita e la loro morte – non appartenevano più soltanto a me. Era come se fossero di nuovo tornati a vivere, come se mi fossero accanto.
Chiunque adesso poteva conoscere i loro destini e soprattutto quelli che oggi mi sono vicino: i miei figli, i loro amici, i miei conoscenti.
Con questo libro sono arrivata a molti cuori, mi sono fatta amici di diversi paesi: tra gli adulti e tra i bambini, tra gli ebrei e tra persone di altre nazionalità.
Mi hanno mostrato la più profonda comprensione e riconoscenza, per le quali non ho abbastanza parole per ringraziarli. Ho capito che dappertutto si trovano persone pronte ad ascoltare e a comprendere,
se di fronte a loro apriamo il nostro cuore con onestà e sincerità, mostrando con amore e con fiducia la verità in esso racchiusa.
Questa verità verrà accettata, sebbene sia stata difficile e dolorosa; anzi, capita che essa risvegli la fiducia e la fede nella vita.
Desidero ringraziare calorosamente tutti coloro che hanno preso parte alla pubblicazione dei miei ricordi dei tempi dello sterminio nazista.”
Halina Birenbaum
SONO STATO L'ASSISTENTE DEL DOTTOR MENGELE
di Milkòs Nyszli
traduzione in italiano Augusto Fonseca
Milkós Nyiszli è stato uno degli internati più a conoscenza dei segreti sulla liquidazione di massa degli ebrei nelle camere a gas in quanto, nella sua qualità di medico degli internati operanti nel Sondercommando e di assistente del dottor Mengele, alloggiato, peraltro, nel crematorio 2 di Birkenau, aveva rapporti quotidiani con il personale delle camere a gas e fu testimone diretto di continui assasini.
Pubblica il suo memoriale in Ungheria nel marzo del 1946 e nel 1947 è a Norimberga e riconfermare quanto scritto, testimoniando nel processo contro responsabili della fabbrica IG Farbenindustrie.
Questa terza edizione è stata arricchita con illustrazioni e con una nota biografica sull'autore da uno dei maggiori esperti in materia, Franciszek Piper - responsabile della Sezione Storico-Scientifica del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau.
Dichiarazione di Nyiszli del 1946 con la quale inizia il libro:
“Io, sottoscritto dott. Milkós Nyiszli, di professione medico, ex internato nel campo di concentramento di Auschwitz, dichiaro in qualità di testimone oculare, impiegato nei crematori e nelle fosse crematorie di Birkenau,
dove il fuoco ha divorato milioni di corpi di padri, madri e figli, di avere scritto questo memoriale sulla pagina più nera della storia dell'umanità in sintonia con la realtà effettiva,
non spinto da alcuna passione, senza alcuna esagerazione né particolari coloratura.
In qualità di medico nei crematori di Auschwitz, ho preparato e compilato una quantità infinita di verbali medico-legali, che firmavo di proprio pugno con l'aggiunta del numero di tatuaggio, concernenti l'autopsia di cadaveri.
I documenti menzionati venivano poi vistati dal mio superiore, il medico SS Mengele, e successivamente spediti per posta al seguente indirizzo: "Berlin-Dahlem, Institut für Rassenbiologische und Antropologische Forschungen",
cioè all'indirizzo di uno dei più famosi istituti medici del mondo.
Con ogni probabilità sarebbe possible anche oggi trovarli nell'archivio di quel grande istituto. Con questo lavoro non ho assolutamente intenzione di conseguire successi letterari. Io sono un medico, non uno scrittore.”
Dott. Milkós Nyiszli Oradea - Nagyvárad, marzo 1946
MANDATO DI CATTURA
di Kazimierz Albin
traduzione in italiano Anna Lia Guglielmi-Miszerak
Kazimierz Albin è nato il 30 agosto 1922 a Cracovia.
Nel gennaio 1940 fu arrestato in Slovacchia mentre stava cercando di raggiungere l'Esercito Polacco che si stava costituendo in Francia.
In seguito fu trasferito con il primo trasporto da Tarnów al KL Auschwitz, dove fu marchiato con il numero 118.
Nel febbraio 1943 riuscì ad evadere dal campo e si nascose a Cracovia sotto falso nome.
Dopo aver terminato l'addestramento nella scuola clandestina per ufficiali, fu nominato comandante dei sabotatori del III Settore del Comando
della Circoscrizione di Cracovia – Città dell'Armia Krajowa (l’esercito nazionale al tempo dell’occupazione nazista - uno dei movimenti di resistenza più forti e numerosi di tutti i paesi occupati, con tanto di comandi regionali,
scuole di guerra e accademia ed un governo in esilio a Londra che coordinava la resistenza).
Dopo la Guerra ha studiato al Politecnico di Cracovia nella Facoltà di Aeronavale.
È stato uno dei fondatori dell'Associazione per la Tutela di Oświecim. “Mandato di cattura” contiene il racconto delle esperienze di uno dei primi prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz, e in seguito, d
opo la fuga dal campo, di un membro attivo del movimento di resistenza di Cracovia.
È una fonte prezioza per conoscere la realtà del lager: il lavoro massacrante, la fame, il terrore, lo sterminio, ma anche le forme di autodifesa dei detenuti e il movimento di resistenza sia dentro sia fuori il campo.
Uno dei valori principali di questo libro è costituito dalla sua concretezza, dalla sua concisione e dalla presentazione degli anni dell'ocupazione senza abbellire e senza tacere nulla.
“(…) L'autunno freddo e piovoso diradó le fila dei prigionieri. Ci tormentavano sprattutto gli appelli.
Per il grande numero dei prigionieri, i capi baracca e i kapò ci costringevano ad uscire davanti alle baracche un'ora prima per prepararci rapidamente all'appello.
Capitava sempre più spesso, soprattutto durante gli appelli pomeridiani e serali, che qualcuno durante un kommando si perdesse o si addormentasse in un luogo appartato senza avvertire i compagni.
In questi casi i kapó armati di manganelli partivano alla sua ricerca,
mentre tutto il campo doveva rimanere alle intemperie maledicendo quei figli di puttana. Di solito trovavano abbastanza in fretta il prigioniero mentre stava dormendo da qualche parte al caldo,
e lo trascinavano, o portavano il suo cadavere, all'apello. Se i kapò non lo accoppavano sul posto, finiva alla Compagnia Punitiva, e da lì facevano ritorno al campo solo in pochi.
All'inizio di novembre dovemmo rimanere in piedi per un appello punitivo da mezzogiorno fino a tarda notte, senza poter mangiare niente:
era scappato un prigioniero. Cadeva una pioggia mista a neve, tirava un vento gelido, e noi non portavamo ancora né il cappotto, né le maglie di lana e molti non avevano neppure le scarpe.
Quella sera restarono sul piazzale parecchi cadaveri, e soltanto i più resistenti e quelli che potevano mangiare un po' di più, non si buscarono una malattia seria (…)”
Kazimierz Albin